Audizione
del Procuratore generale della Corte di Cassazione davanti alle Commissioni
riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati,
in merito al disegno di legge costituzionale del Governo, n. 4275/C, recante
"Riforma del titolo IV della parte II della Costituzione" (13 giugno
2011).
CONTRIBUTO
DEL PROCURATORE GENERALE
--==oo0oo==--
1. Vi
sono molto grato per l’occasione che mi è offerta di esprimere il mio punto di
vista – o, meglio, le mie riflessioni – su di un progetto di riforma
costituzionale che concerne soprattutto il ruolo e la posizione istituzionale
del pubblico ministero.
Per un
dovere di obiettività e di lealtà verso i magistrati dell’ufficio che ho
l’onore di dirigere, ho promosso una riunione che ha consentito un ampio e
articolato dibattito su vari aspetti di una tematica che è di una complessità
tale da apparire, a prima vista, inestricabile.
Pur
condividendo, specie sotto l’aspetto tecnico, gran parte delle predette
valutazioni, ritengo tuttavia doveroso esporre alcune riflessioni sulle linee
di fondo del progetto di riforma (e non, quindi, sulle sue modalità tecniche di
attuazione), quale contributo utile al dibattito.
2.
Contributo reso con spirito di confronto, senza opposte pregiudiziali e
posizioni rigidamente precostituite, come auspicato dal Capo dello Stato.
Contributo
che ritengo doveroso sotto due profili, uno istituzionale, l’altro di
riconoscenza.
2.1.
Nei miei interventi in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario ho
reiteratamente denunciato alcuni aspetti di una situazione di sostanziale
ingiustizia in cui versa il nostro Paese.
Ciò
m’impone di fornire, un apporto contributo costruttivo a un dibattito sulle
misure che sono dal legislatore ritenute utili o necessarie, pur dovendo
segnalare la settorialità dell’intervento; la non attribuibilità alla figura
del pubblico ministero di tutte le disfunzioni del sistema; la non
accettabilità di una dequotazione delle garanzie o, se si preferisce, la
decostituzionalizzazione dei fondamentali principi che lo tutelano.
Non è
questa una difesa corporativa, dovendo necessariamente limitare il mio
contributo al punto decisivo della questione: all’esame, cioè, della proposta
di separazione delle carriere quale condizione per l’attuazione di un giusto
processo, tenendo conto della situazione di indipendenza del pubblico ministero
e dell’incognita legata ad una espansione del suo ruolo.
2.2.
L’altro motivo per cui ritengo doveroso il mio contributo si sostanzia nella
riconoscenza E ponendo al servizio anche la mia quarantennale esperienza nelle
più prestigiose assise internazionali sul funzionamento della giustizia penale.
Ho
avuto, infatti, il grande onore, tra l’altro:
di aver
partecipato, per lo più in qualità di capo della delegazione italiana, a New
York, ai lavori preparatori dello Statuto della Corte penale
internazionale, facendo parte, dapprima, del Comitato ad hoc (1995)
e, quindi, del Comitato preparatorio per la istituzione della Corte (1996-1997)
e partecipando, infine, alla Conferenza diplomatica del 1998;
di
essere stato designato dal Comitato europeo per i problemi criminali, quale esperto
scientifico incaricato, nell’ambito di un comitato internazionale ad
hoc, della elaborazione e della redazione della Raccomandazione n. 19 del
2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’ Europa;
di aver
convocato a Roma, dal 26 al 28 maggio u.s.,nella mia qualità di Presidente
della relativa Rete, la Conferenza dei procuratori generali dell’Unione
europea.
3.
L’uno e l’altro strumento internazionale assumono carattere decisivo per
tracciare le linee-guida che in questa sede interessano, mentre le conclusioni
della Conferenza sulpubblico ministero quale organo di giustizia e promotore
dei diritti umani, autonomo e responsabile, indicano il ruolo
comune verso cui convergono in Europa le autorità incaricate dell’esercizio
dell’azione penale.
3.1. Lo
Statuto, cui hanno sinora aderito 115 Stati, sancisce non solo il principio di
indipendenza, oggettiva e soggettiva e quello di imparzialità, tanto dei
giudici che dei procuratori, ma anche l’autonomia organica dell’Ufficio del
Procuratore da quello della Corte (art. 42).
3.2.
D’altra parte, nel suo magistrale intervento svolto a Roma il 27 maggio u.s.,
nel corso della IV Conferenza dei Procuratori generali dell’Unione europea,
Thomas Hammarberg, Commissario per i diritti umani del Consiglio d’ Europa, ha
detto che occorre gettare un muro di sicurezza (firewall) tra pubblico
ministero e giudice ed ha riferito di avere dalla sua esperienza
imparato come la separazione dei poteri tra tali organi sia
cruciale anche per gettare le basi per l’eguaglianza delle armi nell’intero
sistema.
A ben
vedere le preoccupazioni del Commissario concernono, da un lato, l’attuazione
di un giusto processo e, dall’altro, l’incognita in ordine all’espansione del
ruolo del pubblico ministero:
a)
sotto il primo profilo esse sono in linea con la giurisprudenza della Corte
europea che, sin dalla storica sentenza Delcourt (17 gennaio
1970) ha sempre ammonito che l’égalité des armes, principio
fondamentale del giusto processo, mira a garantire l’eguaglianza delle parti
dinanzi al giudice ed a proteggere l’effettività del dibattito contraddittorio;
garanzia specifica che si aggiunge a quelle generali concernenti il diritto ad
un tribunale indipendente ed imparziale. Il primo diritto si apprezza da un
duplice punto di vista, perché l’indipendenza deve esistere nei riguardi sia
del potere esecutivo che delle parti, e, quindi, anche, del pubblico ministero.
Il secondo diritto, che si apprezza dal punto di vista sia soggettivo che
oggettivo può prendere in considerazione, sotto quest’ultimo aspetto, anche le
apparenze di imparzialità.
b)
sotto il secondo profilo esse concernono le inquietudine che sul piano della
stabilità del sistema democratico ha sempre suscitato la figura dell’inquirente
e che sono oggi ancor presenti in alcuni Paesi dell’ Est. Esse concernono – ha
detto il Commissario – il rischio che un pubblico ministero troppo forte
possa trasformarsi in un quarto potere senza obbligo di rendiconto.
Le
preoccupazioni del Commissario formano addirittura oggetto di un rapporto ad
hoc sul pubblico ministero. Quello, di recentissima
pubblicazione, elaborato dalla Commissione europea per la democrazia
attraverso il diritto – la cd. Commissione di Venezia -
e costituente la seconda parte delle norme europee concernenti
l’indipendenza del sistema giudiziario (testo adottato a Venezia il
17-18 dicembre 2010), il quale dedica un apposito capitolo ai rischi
del potere eccessivo dei pubblici ministeri per l’indipendenza del sistema
giudiziario (§§ 71-76).
Il
Rapporto della Commissione esamina i principali modelli di organizzazione del
pubblico ministero e riconosce espressamente che la Raccomandazione n. 19 del
2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d’ Europa costituisce il
fondamentale documento cui tutti i Paesi d’Europa devono ispirarsi in sede di
riforma.
Questo
strumento non privilegia alcun modello di pubblico ministero, sia esso
dipendente o meno dall’esecutivo o, comunque, a lui subordinato.
Esso
lascia gli Stati liberi di seguire la loro tradizione e le loro scelte di
politica criminale, indicando, però, rigorosamente le condizioni che devono in
concreto osservarsi perché il modello adottato costituisca un fattore di
stabilità democratica.
E
possa, comunque, assicurare, nel procedimento, il contraddittorio, nel rispetto
di quel principio dell’ egalité des armes tra l’accusa e la
difesa, che costituisce una delle componenti essenziali del giusto processo.
4. L’
esame della compatibilità della proposta di riforma con i canoni della
Raccomandazione e con le altre linee in precedenza indicate non può essere
effettuata in astratto.
Se si
operasse in tal modo, si opererebbe tratterebbe una esercitazione accademica,
con conclusioni alla Candide di Voltaire: il mio
sistema è il migliore possibile e se c’è qualcosa di negativo, questo esiste
per un motivo preciso e non può essere altrimenti .
4.1.
Essa deve essere effettuata in concreto, tenendo conto del contesto, cioè della
situazione italiana.
Della
situazione italiana nel suo divenire, quale cioè, essa era al momento della
scelta iniziale, ossia al momento della Costituzione, e quale essa oggi si
presenta.
Per
ciascun momento esaminando e comparando, in filigrana, la situazione
processuale (sistema inquisitorio o accusatorio) con la situazione
ordinamentale.
E per
ciascun momento comparando il complessivo contesto italiano con quello dei
Paesi con il nostro presentando una affinità di scelte processuali ed
ordinamentali.
4.1.
Sotto quest’ultima prospettiva il punto di partenza dell’analisi dovrebbe
mirare ad accertare:
- se è
vero che il nostro pubblico ministero é l’unico — tra ordinamenti sia di civil
law sia di common law – ad essere indipendente dall’esecutivo.
- se è
vero che esso é l'unico che — in un ordinamento processuale di tipo accusatorio
– fa parte dell’ordine giudiziario, come avviene solo negli ordinamenti
processuali di tipo inquisitorio.
Stabilito
che il nostro pubblico ministero è indipendente dall’esecutivo e fa parte
dell’ordine giudiziario, occorre chiedersene le ragioni storiche e la
perdurante loro validità.
4.2.
Generalmente si dice che iI costituente preferì una soluzione di compromesso,
agevolata dalla sostanziale sfiducia nella magistratura da parte dei partiti di
sinistra, favorevoli a forme di controllo politico sui giudici e quale
correttivo del sistema previde il principio di obbligatorietà dell’azione
penale.
4.3.
Non interessa in questa sede chiarire se, come pure si dice, fu geniale, per
quei tempi, l’armonia compromissoria raggiunta da De Gasperi e
Togliatti.
Quello
che interessa è che rispetto al passato - il che vuol dire non solo rispetto al
codice Rocco, ma alla nostra tradizione risalente al codice napoleonico – fu
innovato solo in ordine al principio allora vigente della dipendenza del
pubblico ministero dall’esecutivo.
La
questione della separazione delle funzioni o delle carriere non fu nemmeno
sfiorata, perché all’epoca non poteva neanche essere ipotizzata.
In un
sistema inquisitorio che pubblico ministero e il giudice facciano parte di un
corpo unico è razionale ed addirittura ovvio.
Così
come in un processo accusatorio – in un processo, cioè, di parti – sembrerebbe
ovvio il contrario, con la conseguenza che il problema della separazione delle
carriere si sarebbe dovuto porre al momento dell’adozione del nuovo codice e,
al più tardi, al momento della costituzionalizzazione del giusto processo.
5. La
situazione attuale impone una serena riflessione.
5.1.
Riflessione che non concerne, però, il principio dell’indipendenza del pubblico
ministero dall’esecutivo.
Se,
invero, il diritto ad un giusto processo non è concepibile se il giudice non è
indipendente da ogni altro potere, così il diritto ad un giusto processo – e a
una giusta indagine che lo precede – non è concepibile se il pubblico ministero
non è indipendente da ogni altro potere.
Se vi
sono condizionamenti all’inizio dell’indagine, si smarrisce il significato
dell’autonomia al momento della decisione.
Il
valore dell’indipendenza – da noi conquistato al momento della Costituzione e
per altri Paesi costituente un obiettivo da raggiungere – deve essere
salvaguardato.
E
questo valore deve, a maggior ragione, essere salvaguardato nel momento in cui
le linee della giurisprudenza di Strasburgo indicano che il giusto
processo deve scaturire dalla giusta azione del
pubblico ministero.
Nel
momento in cui la Convenzione europea vede il pubblico ministero come uno dei
principali destinatari degli obblighi positivi che essa impone in un giusto
processo, risulta evidente che tali obblighi possono essere adempiuti sono da
un pubblico ministero indipendente, che sia subordinato soltanto alla legge.
Tra
tali obblighi basilare è quello di salvaguardare, nelle indagini come nel
processo, la dignità ed i diritti di tutte le parti, ivi compresi, ovviamente,
quelli della vittima, che ha il diritto di intervenire nel processo
ricostruttivo dei fatti.
Il
pubblico ministero è così divenuto autonomo organo di giustizia, promotore dei
diritti umani.
E la
sua posizione e tutela costituzionale non può essere garantita con la tecnica
normativa del rinvio alla legge ordinaria.
Autonomia
e indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere sono principi che
non possono essere decostituzionalizzati o surrettiziamente aggirati.
5.2. La
necessità della riflessione concerne, invece, la questione della perdurante
appartenenza di giudice e pubblico ministero ad uno stesso ordine.
La
riflessione concerne, in particolare, gli effetti di una riforma del codice
basata sull’adozione di un sistema accusatorio (tipico degli ordinamenti di common
law), ma non accompagnata da riforme ordinamentali.
Riforme,
invece, adottate in Portogallo, che pure si è munito di codice di rito che è
una pedissequa traduzione del nostro codice dell’89 (ed è ivi entrato in vigore
sin dal 1988) e che si è dotato di due Consigli superiori (uno per i giudici,
l’altro per i procuratori).
Riflessione
– sinora mancata – sulle ragioni per cui la Francia, che pure ha conservato il
sistema inquisitorio in un ordinamento di civil law, si è
dotato di una doppia formazione (uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri)
nell’ambito di un unico Consiglio superiore della magistratura.
5.3.
Orbene, se si riflette, appaiono, a mio avviso, evidenti le ragioni della
differente disciplina.
In
Portogallo sono stati istituiti due autonomi organi di autotutela perché il
pubblico ministero non fa più parte dell’ordine giudiziario.
In
Francia è stato conservato il solo organo di autotutela con due sezioni perché
il pubblico ministero fa ancora parte dell’ordine giudiziario ma è stata
riconosciuta la diversità delle funzioni.
Si
tratta di scelte coerenti anche perché diverso è il rapporto che si è venuto a
determinare tra il giudice e il pubblico ministero nei rispettivi ordinamenti.
5.4. Il
distacco, la netta separazione tra il giudice e l’organo che esercita l’azione
penale è, infatti, connaturata con gli ordinamenti di common law (o,
comunque, ad essi assimilabili)
Distacco
che non è solo funzionale alle esigenze del sistema accusatorio ma costituisce
elemento strutturale a quel modello.
Modello
caratterizzato, in linea generale, da una rigida separazione tra polizia (che
ricerca elementi di accusa), attorney o figura analoga (che
valuta in autonomia l’utilizzabilità di tali elementi) e giudice, dinanzi a cui
si forma, nel contraddittorio tra le parti, la prova.
Separazione
che non esiste nel nostro sistema in cui il pubblico ministero forma un blocco
monolitico con la polizia ed assume funzioni inquisitorie nella fase delle
indagini preliminari e funzione di parte nella fase dibattimentale, con la
conseguenza che le species del pubblico ministero e del giudice
risultano ontologicamente diverse.
Nelle
scuole insegnano – e non è leggenda – che se un attorney, per
caso, entra nello stesso ascensore del giudice, quest’ultimo non può, quel
giorno, esaminare alcun caso cui é interessato quell’attorney.
5.5.
Questo distacco non è esistito, per ragioni storiche, nei paesi di civil
law.
L’ordinamento
di questi paesi si ricollega, per lo più, alle riforme che contrassegnarono, in
Francia, il superamento di quella soglia fatale del senso di
ingiustizia percepito, che generalmente prelude alla rivolta all’ordine
costituito e talvolta sfocia nella rivoluzione.
In quel
Paese, il superamento di quella soglia fatale, nel 1790, aveva
indotto il Re – pressato dall’ondata rivoluzionaria a porre fine agli abusi del
sistema giudiziario dell’Ancien regime – ad effettuare alcune
fondamentali riforme (obbligo della motivazione delle sentenze, istituzione del Tribunal
de cassation, etc).
Uno dei
capisaldi della riforma fu costituito dalla istituzione della polizia
giudiziaria sotto il controllo del Procuratore del Re.
Questa
riforma sorse, in particolare, come reazione al dispotismo di Stato, con
delatori anonimi, agenti provocatori e polizia segreta, che rendevano bendata
la giustizia.
La
polizia giudiziaria fu scorporata dalla polizia di sicurezza (distinzione,
questa che non esiste nei Paesi di common law), cui
furono affidati solo compiti di prevenzione dei delitti.
La
polizia giudiziaria - fu detto nel codice del 3 brumaio dell’anno IV - ricerca
i delitti che la polizia amministrativa non è stata in grado di impedire.
Per tal
modo la polizia giudiziaria ed il Procuratore del Re costituirono i filtri
delle notitiae criminis e resero credibile e più agevole
l’intervento del giudice istruttore, dinanzi al quale si formava la prova, con
conferma al dibattimento.
L’affidabilità
del sistema fu garantita dall’appartenenza, sia del procuratore che del
giudice, all’ordine giudiziario.
5.6.
Questo é il sistema ancor oggi in corso nei sistemi di civil law (Francia,
Belgio, etc) e questo è il sistema da noi vigente sotto l’impero del codice
Rocco.
Si
discute se con l’entrata in vigore del codice Vassalli il pubblico ministero
sia ancora condizionato nell’esercizio dell’azione penale dalla notitia
criminis (rapporto, denuncia querela) e questa questione è intimamente
connessa con l’aspra dibattito in corso sui limiti del cosiddetto controllo
di legalità.
Su
quest’ultimo tema è noto come la maggior parte della magistratura – specie
quella associata – rivendichi la titolarità di tale controllo.
Si
tratta di un controllo preventivo, non legato alla notitia criminis,
e che consente al pubblico ministero di ricercare se un reato é stato commesso.
Controllo estraneo alla tradizione degli ordinamenti di civil law
Il
dibattito si estende agli analoghi poteri che, nei Paesi dell' Est, prima della
caduta del muro di Berlino, erano affidati alla Prokuratura di
stampo sovietico.
Quale
condizione per l’ ingresso di questi Paesi nella Grande Europa, il Consiglio d'
Europa ha preteso la revisione dell’istituto, ritenendo che lo stesso, per la
sua pervasività, potesse negativamente incidere sulla stabilità dei sistemi
democratici.
6.
Questo lungo excursus si è reso necessario per chiarire come
all’interno del problema della separazione o meno delle carriere si intrecciano
le due questioni evocate dal Commissario dei diritti dell’uomo ed intimamente
tra loro connesse: quella concernente l’attuazione del giusto processo e quella
riguardante il mantenimento di un equilibrio democratico.
Alla
luce delle predette considerazioni e cercando di ricapitolare quanto finora
detto, possono – a mio parere – fissarsi i punti seguenti:
sotto
il sistema del codice Rocco, quale vigente dopo l’entrata in vigore della
Costituzione, l’unicità delle carriere e l’esistenza di un unico organo di
autotutela trovavano la loro base razionale sulle circostanze appresso
indicate:
a) il
pubblico ministero era un organo giurisdizionale: il suo ruolo era
sostanzialmente analogo a quelle del giudice istruttore. Poteva, infatti,
nell’istruzione sommaria, procedere all’arresto ed alla scarcerazione
dell’imputato e poteva raccogliere la prova, che trovava la sua verifica al
dibattimento;
b) il
pubblico ministero ed il giudice (istruttore o del dibattimento) agivano
nell’ambito di un sistema inquisitorio definito di tipo misto, sia nella fase
della istruttoria che del dibattimento; i loro ruoli erano ontologicamente
analoghi e le loro funzioni, diverse solo nella fase dibattimentale,
convergevano verso un unico obiettivo: l’accertamento della verità.
c) il
pubblico ministero era legato, nell’esercizio dell’azione penale, alla notitia
criminis(rapporto, denuncia, querela);
d) il
pubblico ministero aveva il controllo dell’attività di polizia giudiziaria;
e)
quello che oggi viene definito, con una certa accentuazione, protagonismo
irresponsabile di qualche rappresentante del pubblico ministero
trovava all’epoca, tra l’altro, reazione endoprocessuale con la possibilità,
offerta alla difesa, di chiedere l’immediata formalizzazione del processo;
f) la
cultura della giurisdizione era ed è assicurata dal Consiglio superiore della
magistratura nell’ambito della sua attività di formazione continua dei
magistrati. Ed è questo un argomento che viene costantemente opposto a chi
parla di separazione delle carriere, sotto il profilo che, lasciato solo, il
pubblico ministero acquisirebbe una mentalità di tipo poliziesco.
6.2
Sotto il sistema del codice Vassalli, quale esso risulta in conseguenza delle
note sentenze della Corte costituzionale del 1992 e della successiva
legislazione dell’emergenza, la separazione delle carriere e la costituzione di
un duplice organo di autotutela sembrerebbe potersi giungere a ritenere
preferibile sulle circostanze appresso indicate:
a) Il
pubblico ministero – che non arresta e non acquisisce la prova – non si ritiene
possa ancora essere definito quale organo giurisdizionale. Esso resta
certamente organo giudiziario o, meglio, come si è visto (supra, 5.1.)
organo di giustizia, promotore dei diritti dell’uomo. E’ organo di giustizia
perché è il fine di giustizia che oggi legittima il suo agire, posto che lo scopo
ultimo del processo – oramai riconosciuto in tutta l’ Unione europea –
è quello di trattare in modo corretto tutti gli affari per pervenire al
proscioglimento dell’innocente o alla condanna del colpevole. E’, alla luce
della Convenzione europea, organo promotore dei diritti umani perché non deve
più, come si diceva un tempo, vendicare il diritto violato, ma deve oggi
rivendicarlo, promuovendo, nel rispetto del principio del contraddittorio, il
corretto accertamento e una reazione dell’ordinamento adeguata e proporzionata
alla violazione. Sembra, infine, opportuno porre in evidenza che il pubblico
ministero – in tema di libertà personale per le esigenze dell’art. 5 § 3 della
Convenzione europea – non può neanche essere assimilato ad un
magistrato abilitato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie, come
ripetutamente chiarito dalla Corte europea (cfr, da ultimo, Moulin c.
France, sent. 23 novembre 2010);
b) il
fatto che il pubblico ministero assuma la funzione di inquirente nella fase
inquisitoria del procedimento e di parte nella fase accusatoria, porterebbe ad
escludere, per le considerazioni già esposte (supra, 5.4.) che lo stesso
possa far parte di un unico corpo con il giudice. La funzione ed il ruolo di
giudice e pubblico ministero appaiono ontologicamente diverse. La separazione
funzionale è connaturata con quella organica. La necessità della separazione
ordinamentale sembrerebbe allora rafforzata dalla circostanza che lo stesso, in
una fase accusatoria, fa valere dinanzi al giudice e nei confronti
dell’imputato elementi di prova, raccolti nell’ambito di una fase inquisitoria,
di concerto e con l’ausilio delle forze di polizia;
c) se
si afferma la necessità di separare le carriere si deve derivarne, quale
naturale conseguenza, l’istituzione di un separato organo di autogoverno per il
pubblico ministero. Solo per tal modo, infatti, si può garantire anche al
pubblico ministero l’indipendenza a lui riconosciuta rispetto all’esecutivo e a
ogni altro potere dello Stato (supra, 5.1.);
d) in
questa ottica, la composizione dell’organo di autogoverno dovrebbe essere tale
da impedire – contrariamente a quel che al riguardo suggerisce la Commissione
di Venezia (§ 66) – che i membri togati siano messi in minoranza dai laici.
E’
chiaro che se si dovesse operare nel senso della separazione delle carriere con
la susseguente istituzione di un autonomo Consiglio superiore della
magistratura requirente, vi sarebbe la necessità di regolamentare, con
chiarezza, i compiti di indagine del pubblico ministero ed i suoi rapporti con
la polizia giudiziaria.
E ciò
al fine di eliminare in radice il rischio della creazione di un corpo separato
dello Stato idoneo ad incidere sull’ equilibrio democratico e sul principio
della sicurezza giuridica dei cittadini, cardine di ogni società democratica.
In tale
prospettiva sarebbe importante chiarire (se del caso apportando le necessarie
modifiche legislative):
che il
pubblico ministero dovrebbe rimanere pur sempre legato, nell’esercizio
dell’azione penale, alla notitia criminis (rapporto, denuncia,
querela, etc.);
che il
pubblico ministero non è il dominus del controllo di
legalità: esso, invero, dovrebbe tendere alla ricostruzione della
legalità violata, ma non potrebbe estendere la sua azione alla verifica che la
legalità non sia stata per caso violata: ove dovesse verificarsi quest’ultima
ipotesi il pubblico ministero verrebbe arbitrariamente ad assumere compiti di
polizia, della pubblica amministrazione e della politica
che il
pubblico ministero dovrebbe continuare ad avere – limitatamente alla notitia
criminis – la diretta disponibilità della polizia giudiziaria;
che,
quindi, il pubblico ministero non è il capo della polizia, ma rimarrebbe
tuttora il controllore della polizia giudiziaria; il garante, cioè, della
legalità processuale, sia sul versante investigativo sia su quello, di sua
esclusiva competenza, dibattimentale;
che
sembra opportuno ricordare come, all’esito di un appassionante dibattito, nel
corso dei lavori preparatori dello Statuto della Corte penale internazionale,
si sancì che il Procuratore può aprire un’inchiesta solo dopo aver
valutato le informazioni sottoposte alla sua conoscenza (id est:
notitia criminis) e a condizione che le informazioni in suo
possesso forniscano un ragionevole fondamento per supporre che un reato
di competenza della Corte è stato o sta per essere commesso (art.
53.1.a);
che
all’argomento opposto sulla inesorabile consequenziale perdita della cultura
della giurisdizione, va obiettato che la cultura della giustizia, dovrebbe
trovare la sua fonte in una scuola superiore unica, aperta ad avvocati,
giudici, pubblici ministeri ed ufficiali di polizia giudiziaria. Il modello del
La.p.e.c. (Laboratorio permanente esame incrociato), formato da illuminati
avvocati, docenti universitari, giudici, pubblici ministeri e tecnici, sta
disincrostando dogmi e pregiudizi di stampo inquisitorio ed ha finalmente
avviato, dopo oltre vent’anni (quasi una generazione) una cultura della civiltà
accusatoria.
Solo
per completezza di esposizione va esaminata, infine, la questioni concernente
la scelta delle priorità per regolare il principio di obbligatorietà dell’azione
penale.
In un
seminario cui nel 1975 partecipai, a Strasburgo, sotto la guida del mio
Maestro, il compianto Girolamo Tartaglione, vittima delle brigate rosse nel
1978, emerse che nei Paesi a quel momento aderenti al Consiglio d’ Europa vi
era una tale convergenza in pratica sui principi di obbligatorietà o
facoltatività dell’azione penale (principe de légalitéo d’opportunité
des poursuites) da far apparire inutile la distinzione.
Il modo
più semplice per risolvere il problema sarebbe quello di inserire, su determinazione
consiliare, la scelta delle priorità nel circuito virtuoso istituito dalla
circolare del Consiglio superiore del 2009 emessa in attuazione dell’articolo 6
del decreto legislativo n. 106 del 2006 sull’organizzazione degli uffici di
procura.
Si tratta
di un procedimento di garanzia – che sta manifestando grandi ed insospettate
potenzialità innovative – il quale trova il suo vertice nel Consiglio superiore
della magistratura e che vede coinvolti il procuratore generale di appello ed i
dirigenti degli uffici di procura con l’intervento del Procuratore generale
della corte di cassazione.
Si
tratta di una autentica rivoluzione copernicana con cui, per la prima volta in
Italia, è stato valorizzato, nell’organizzazione degli uffici, il concetto di
uniforme esercizio dell’azione penale e, per la prima volta, l’uniformità è
stata correlata al rispetto delle norme sul giusto processo.
Nel suo
Rapporto, la Commissione di Venezia indica proprio nell’individuazione delle
priorità un settore nel quale il parlamento e il ministero della
giustizia o il governo possono, a giusto titolo, giocare un ruolo decisivo
nell’elaborazione della politica in materia di esercizio dell’azione penale (§43).
La
delicatezza del tema e la rilevanza degli interessi in giuoco, suggerisce,
però, la necessità di una previsione costituzionale.
Occorre
rilevare che tra i settori di intervento sinora esplorati, ha avuto un esito
particolarmente positivo quello – ancora in corso, svolto in stretta
cooperazione anche con i competenti uffici del Ministero della giustizia e le
cui risultanze saranno sottoposte alle determinazioni del Consiglio superiore –
concernente l’iscrizione delle notizie di reato nei relativi registri.
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