Schema di requisitoria integrato con le note d’udienza
del Sostituto Procuratore Generale Cons. Francesco
Iacoviello (Cass. pen., sez. V, ud. 9 marzo 2012, imp. Dell’Utri)
1. Premessa.
Non si tocca il fatto, se non nella misura in cui si tocca il diritto.
In
altri termini, non si intende contestare ciò che dicono i pentiti.
Non
si valutano le prove e non si prospettano ricostruzioni alternative.
Anzi,
si prende -faticosamente- per vero tutto ciò che hanno detto.
I
fatti sono quelli. Ma quali ?
Gli
anglosassoni parlano di teoria del caso per indicare la sintesi logica
del fatto incriminato.
Un
public prosecutor statunitense riassumerebbe così il caso: “te la sei fatta
con i mafiosi e hai procurato per tanti anni un sacco di soldi alla mafia. Se
non è concorso esterno questo… Dove è il problema?”.
Il
problema c’è.
2.
L’imputazione che non c’è.
C'è
un capo di imputazione che riempie quasi una pagina.
Ebbene,
dopo averlo letto, possiamo metterlo da parte.
Lì
dentro non c’è il fatto per cui l’imputato è stato condannato.
Quell’imputazione
è un fiore artificiale in un vaso senza acqua.
Ma
non ci doveva essere una pronuncia di assoluzione per quelle imputazioni
dal
momento che era emerso (in base all’attività integrativa) un fatto nuovo ?
In
questo processo la cosa più difficile è trovare l’imputazione.
Bisogna
andarsela a cercare nelle pagine del processo.
Estrarla
da una mezza frase, da un verbo, da un sostantivo.
E’
un processo ad imputazione diffusa.
Le cripto-imputazioni,
le imputazioni implicite, le imputazioni vaghe sono state poste al bando
dal giusto processo.
Se
c’è un imputato, ci deve essere un’imputazione.
Qui
abbiamo un imputato, un reato. Ma non un’imputazione.
O
meglio, un’imputazione liquida. Per una condanna solida.
2.1.
Un cambio di prospettiva: dalla violazione dei diritti di difesa al vizio di
motivazione.
Probabilmente
la giurisprudenza CEDU è ancora un futuribile giuridico, a fronte di una
granitica giurisprudenza nazionale che ammette una contestazione mediante
prove e non mediante testo linguistico.
Ma
qui si intende proporre una diversa prospettiva: l’esiziale effetto che la
mancanza di una formale imputazione ha sulla motivazione della sentenza.
In
altri termini, la mancanza di imputazione va vista non sotto il profilo della
violazione del diritto di difesa, bensì sotto quello del vizio di motivazione.
Perché
senza le parole precise dell’imputazione l’accusa diventa fluida, sfuggente.
Si
altera l’ordine logico del processo, riflesso nella struttura della sentenza: imputazione-motivazione-decisione.
Qui
dalla motivazione si ricava l’imputazione.
Ma
come si può ritenere valida una motivazione se manca il parametro di
riferimento dell’imputazione ?
Si
sovrappongono i piani della descrizione del fatto e della argomentazione sulle
prove del fatto.
Si
motiva dando per scontato un fatto e si trae il fatto da spezzoni di frasi, da
un verbo, da un sostantivo.
La
motivazione diventa assertoria, non indica -non dico le prove- ma neppure i
fatti, sovrappone i piani della condotta, dell’evento e del dolo, copre i vuoti
logici con slittamenti semantici.
E’
quello che è avvenuto.
3.
Alla ricerca della imputazione. Il paradosso di un concorrente esterno che dà
il suo contributo in una vicenda estorsiva, ma non concorre nell’estorsione.
Qui
abbiamo pacificamente un’estorsione continuata.
Il
contributo dell’imputato (concorrente esterno) è un contributo al realizzarsi
dell’evento estorsivo perché si inserisce nei momenti cruciali della trattativa
tra vittima ed estorsori.
Il
risultato è che l’imputato risponde di concorso esterno ma non di estorsione !
Si
potrà dire: è un affare del Pm il fatto di non aver contestato l’estorsione.
Ma
non è evidentemente questo il punto.
Il
problema non è di diritto processuale, ma di diritto sostanziale.
Si
tratta di definire la condotta del concorrente esterno.
Il
quesito giuridico è il seguente: “se il contributo del concorrente esterno
consiste (come in questo caso) nel portare a buon fine una estorsione, la sua
condotta deve avere i caratteri del concorso all’estorsione o deve avere un
quid pluris o un quid minus ?”.
L’imputato
partecipa ad un’estorsione, ma la sentenza non si pone il problema se la
condotta dell’imputato deve avere i caratteri tipici di colui che concorre
nell’estorsione.
Ma
se in sentenza non si parla di estorsione, dovremmo giungere a questo: la
condotta dell’imputato si inserisce in una estorsione ma è un quid minus
rispetto al concorso in estorsione.
Questo
quid minus non è tale da integrare l’estorsione, ma è tale da integrare
il concorso esterno…
Ora.
Come
si sa, il semplice fatto di concorrere in un reato-fine non è di per sé
sufficiente ad integrare il concorso esterno.
Perfino
partecipare ad un omicidio (a meno che non sia di quelli c.d. strategici) non
basta per il concorso esterno.
La
sentenza avrebbe dovuto seguire il seguente protocollo logico: a) l’imputato ha
concorso nell’estorsione; b) trattandosi di un’estorsione strategica continuata
per molti anni, possiamo argomentare che il concorso nel reato-fine è condotta
di concorso esterno.
La
sentenza ignora clamorosamente il problema.
Questo
dimostra quanto andavamo dicendo a proposito di mancanza di una formulazione
dettagliata dell’imputazione.
Dobbiamo
ritenere che l’imputato ha posto in essere una condotta che è un quid minus
rispetto all’estorsione ma è sufficiente ad integrare il concorso esterno.
Ma è
logicamente e giuridicamente possibile ?
Se
la Mannino (metodicamente ignorata dalla sentenza) ci dice che il contributo
del concorrente esterno deve essere concreto, effettivo e rilevante, il quesito
giuridico è: “come è possibile un contributo concreto effettivo e rilevante
ad una estorsione, che però sia qualcosa di meno del concorso in estorsione ?”.
La
sentenza impugnata non si è posto l’interrogativo.
Ma
trattandosi di una questione di diritto sostanziale, la Corte deve
porselo.
Anche
di ufficio (arg. ex art. 129 cpp.).
4. La fondamentale distinzione delle condotte di
concorso esterno: concorso consistito in attività illecita o in attività lecita.
Il
concorso esterno può consistere in un’attività illecita o in un’attività
lecita.
Concorrente
esterno può essere colui che compie un omicidio o un’estorsione per conto
dell’associazione.
E
può essere il medico che sistematicamente cura in clandestinità i latitanti di
mafia.
Sotto
il profilo della contestazione le cose cambiano.
Se
la condotta del concorrente esterno consiste nella commissione di un reato-fine
o di un reato strumentale all’associazione, la tipizzazione della condotta del
concorrente esterno è definita dal reato compiuto (per esempio, omicidio o
estorsione).
Qui
il deficit di tipicità è ridotto.
Il
deficit di tipicità è massimo invece dove la condotta del concorrente esterno consiste
in un’attività lecita.
Infatti,
l’illecito penale è tipizzato.
Il
lecito no.
Nel
caso in esame cosa abbiamo ?
Pacificamente
la condotta dell’imputato si iscrive in una vicenda estorsiva.
Quindi
si sarebbe dovuto applicare un protocollo logico lineare e usuale in situazioni
del genere: contestare estorsione e concorso esterno.
Il
contributo del concorrente esterno è la sua partecipazione all’estorsione.
Dal
reato-fine dell’estorsione si passa poi al concorso esterno.
Si
sarebbero ottenuti due risultati: a) tipizzare il contributo del concorrente
esterno; b) adeguare l’imputazione al fatto e la pena alla gravità delle
imputazioni.
Il
rischio era che se cadeva la partecipazione all’estorsione cadeva tutto.
Si è
seguita una diversa strada: a) non si è contestata la partecipazione
all’estorsione; b) si è contestato in fatto il concorso esterno.
Si è
passati così da un’imputazione che poteva essere ben determinata (l’estorsione
ha profili scolpiti) ad un’imputazione indeterminata.
Il
risultato è questo: nel primo caso l’imputato doveva difendersi da due accuse
determinate, ora si difende da una sola accusa. Ma indeterminata.
L’indeterminatezza
dell’accusa non giova alla difesa.
E’
vero che se gli va male, prende una condanna minore.
Ma
il rischio che gli vada male è enormemente aumentato.
5. E’ ammissibile la contestazione in fatto del
concorso esterno in associazione mafiosa?
La
sentenza dice per rispondere ad una eccezione della difesa: c’è la
contestazione in fatto.
Ed
ha ragione. Ma fino ad un certo punto.
La
giurisprudenza della Corte EDU impone una profonda revisione della
giurisprudenza corrente.
La
Convenzione europea ci dice che l’accusa deve essere dettagliata.
Dettagliata
non vuol dire che è sufficiente che io contesti all’imputato cosa hanno detto i
pentiti.
Sarebbe
come dire: “io ti contesto le prove, tu difesa trai da tutte le informazioni
probatorie i possibili fatti che ti possono venire ascritti”.
Non
si può sub-delegare al pentito di formulare l’accusa.
Nè è
l’imputato che deve estrarre dai fatti l’accusa.
Per
poi sapere -solo al momento in cui è condannato- ciò di cui è accusato.
In
base alla giurisprudenza convenzionale (che è diritto) la contestazione in
fatto implica una riformulazione linguistica dell’imputazione.
Non
è formalismo ma sostanza: se il fatto è un omicidio, l’imputazione è per così
dire, in re ipsa.
Ma
se il fatto è il concorso esterno le cose cambiano drammaticamente.
Rilievo
importante: la giurisprudenza in materia di contestazioni in fatto ha sempre
riguardato fattispecie tradizionali, cioè ad alto tasso di tipicità.
Fattispecie
ben strutturate: come ricettazione e falso, appropriazione indebita e truffa e
così via.
Cioè
sono tutti casi in cui l’emersione del fatto dalle contestazioni avveniva -per
così dire- per forza di inerzia[1].
Ma
qui siamo in presenza di una fattispecie
intrinsecamente vaga.
L’imputazione
è la proiezione processuale del principio di tipicità penale.
Già
il concorso esterno è ferocemente contestato in dottrina e giurisprudenza sotto
il profilo della sua tipicità sfuggente.
Tre
SS.UU. hanno cercato di tipizzarlo.
Ammettere
una contestazione in fatto significa platealmente aggirare il principio di
tipicità.
Cioè
la principale conquista dell’illuminismo giuridico.
Dunque,
ci deve essere un atto (esame o altro) in cui l’accusa mi dica dettagliatamente
e in forma chiara e precisa la condotta criminosa che avrei commesso.
6. Rimettere la questione nelle mani delle
SS.UU.
Non
credo che risultino precedenti della contestazione in fatto di un’accusa di
concorso esterno.
Aggiungerebbe
oscurità ad un reato già di per sé oscuro.
Saremmo
ad una doppia indeterminatezza: l’indeterminatezza del reato e
l’indeterminatezza della contestazione in fatto.
Nel
corso degli anni sono intervenute tre volte le SS.UU. per cercare di dare
determinatezza alla fattispecie del concorso esterno.
Il
problema era restringere l’area del concorso esterno riportandolo nei confini
della tipicità.
Con
la teoria della fibrillazione si è tentato di porre un freno.
Il
secondo intervento delle SS.UU. è stato sul versante del dolo.
Il
terzo intervento (la Mannino) ha operato sul versante della causalità.
E’
tutto inutile se si aggirano i limiti posti da queste tre sentenze operando sul
piano semantico della formulazione della fattispecie.
La
vicenda è nota.
L’aggiramento
della tipicità può avvenire usando termini vaghi (la famosa o famigerata disponibilità,
per esempio).
La
Mannino si è resa conto di questa insidia e ha bollato con termini aspri -ha
parlato testualmente di “vaghezza semantica e retorica”- la formulazione
dell’imputazione in termini vaghi.
E’
proprio questo spunto importante della Mannino che autorizza ed anzi impone di
rimettere alle Sezioni Unite un quesito che riguarda un pericolo ancora
maggiore rispetto alla vaghezza dell’imputazione: la contestazione in fatto.
La
questione è di straordinaria importanza e farebbe davvero fare alla
giurisprudenza un balzo in avanti sulla strada della civiltà giuridica e potrebbe completare il ciclo degli
interventi delle SS.UU. su questa tormentata e dolorosa fattispecie, evitando
le più insidiose forme elusive della tipicità penale e quindi dei diritti
dell’imputato a difendersi da un’accusa definita.
Si è
rimessa alle SS.UU. il quesito se la formula “indisponibilità degli impianti”
fosse rispettosa delle prescrizioni dell’art. 268 cpp.
Dunque,
un problema linguistico.
Qui
la posta in palio è enormemente superiore. E le conseguenze di enorme
portata.
Va
aggiunta un’ulteriore fondamentale considerazione: la contestazione in fatto di
una fattispecie sfuggente come il concorso esterno imporrebbe alla Cassazione
di ricostruire dagli atti e dalle prove
l’imputazione, prima di procedere alla soluzione della quaestio iuris:
cioè della qualificazione normativa del fatto.
Cioè,
la Cassazione prima dovrebbe cercare di estrarre l’imputazione dalle
contestazioni in fatto e poi stabilire se l’imputazione così ricostruita
corrisponde alla fattispecie astratta di reato.
La
prima operazione esorbiterebbe dai poteri cognitivi tradizionalmente fissati al
giudizio di questa Corte.
Dunque
chiedo che vengano investite le SS.UU. dei seguenti quesiti: “a) se ai fini
della validità della c.d. contestazione in fatto è sufficiente la contestazione
all’imputato delle fonti di prova e degli elementi di prova o se si richieda
comunque la formulazione dell’accusa in un atto comunicato all’imputato; b) se, alla luce dei
principi costituzionali e della giurisprudenza convenzionale, possa ritenersi
valida la contestazione in fatto dell’accusa di concorso esterno in
associazione mafiosa, trattandosi di fattispecie già intrinsecamente
caratterizzata da un deficit di tipicità”.
Si
dirà: ma il quesito è stato da sempre risolto dalla giurisprudenza nel senso
che la contestazione è valida se non è leso il diritto di difesa.
Ma
il quesito è diverso.
Non
confondiamo due problemi: a) il problema della contestazione; b) il problema
della correlazione tra accusa e sentenza.
Prima
occorre accertare che vi sia stata una contestazione.
E
poi vedere se c’è correlazione[2].
Se
nell’imputazione mi contesti la partecipazione ad associazione e poi nel corso
del processo mi contesti il concorso esterno, descrivendomi la condotta
incriminata, allora si porrà un problema di correlazione tra accusa e sentenza
(pacificamente risolto dalla giurisprudenza nel senso della correlazione.
Ma
qui si contesta formalmente il concorso esterno, indicando determinati
comportamenti.
Poi
si ignorano completamente questi comportamenti e mi si condanna -senza
alcuna contestazione- per il medesimo titolo di reato, ma per un fatto
completamente diverso.
Prima
ancora di un problema di correlazione, si pone un problema di contestazione.
Distinguendo
i due problemi, si può allora affrontare correttamente il problema della
violazione del diritto di difesa.
Si
dice: il diritto di difesa è salvo se all’imputato vengono contestate tutte le
prove a carico.
E’
evidente l’errore di prospettiva: si fa coincidere la salvaguardia del diritto
di difesa con il fatto stesso che ti vengono contestati i fatti.
Così
si identificano due problemi che vanno scissi: a) innanzitutto ci deve essere
una contestazione in fatto; b) una volta che si è accertata questa
contestazione in fatto, bisogna accertare che questo modo di contestazione non
abbia leso il diritto di difesa.
L’accertamento
in concreto della violazione del diritto di difesa non può esaurirsi
tautologicamente nel fatto che ti sono stati contestati tutti gli elementi del
fatto.
Altrimenti
sarebbe sempre e comunque ammessa la contestazione in fatto perché essa sarebbe
in re ipsa non lesiva dei diritti di difesa.
Al
contrario, se dalla contestazione in fatto la difesa non riesce a trarre
un’accusa dettagliata, chiara e precisa come in questo caso la lesività sarebbe
evidente.
E
comunque - sempre secondo la giurisprudenza costante - il mancato pregiudizio
del diritto di difesa va accertato in concreto, cioè caso per caso.
Non
può essere presunto.
E
questo accertamento nel caso concreto non è stato fatto.
Il
quesito allora è fondamentale, perché nel caso di contestazione in fatto di una
fattispecie intrinsecamente vaga, la lesività sarebbe in re ipsa.
7.
Quale è il contributo dato da concorrente esterno all’associazione mafiosa?
Poiché
non abbiamo un’imputazione, siamo per forza costretti ad elaborare molteplici
teorie del caso, cercando di trovare quella più adeguata al fatto e conforme a
diritto.
Ma è
un’operazione che non competerebbe alla Cassazione.
Doveva
essere fatta nei gradi precedenti.
7.1.
La teoria dell’arricchimento dell’associazione mafiosa mediante le prestazioni
di denaro estorto?
E'
chiaro che la mafia ha ricevuto per anni un contributo rilevante e si è
rafforzata.
Ma
non possiamo dire che la condotta del concorrente esterno è consistita nel dare
soldi alla mafia.
I
soldi alla mafia li ha dati la vittima.
Ogni
vittima di estorsione mafiosa contribuisce -pagando- al rafforzamento
dell'associazione.
Perchè
la vittima non è allora concorrente esterno ? Perchè è appunto vittima.
Allora
non possiamo dire che il contributo dell’imputato è consistito nel dare soldi
alla mafia.
Avremmo
il paradosso che condotta della vittima e condotta dell’imputato
coinciderebbero..
Occorrerebbe
quindi dimostrare che l’imputato ha dato un contributo diverso da quello dato
dalla vittima.
7.2.
La teoria dell’istigazione o agevolazione ?
Va
rilevata una improprietà semantica della sentenza.
A
pag. 319 si addebita all’imputato di aver indotto l’amico-vittima a soddisfare
le pressanti richieste estorsive di cosa nostra: “..inducendo l’amico..”.
Ora,
il diritto è tecnica e la parola “induzione” ha una lunga tradizione
alle spalle.
Indurre
la vittima a pagare significa che la vittima era in dubbio se pagare o no e
l’imputato l’ha spinta a superare il dubbio e a decidersi a pagare.
Su
questo punto convergono due vizi della sentenza:
a)
la contraddittorietà logica (coesistenza di affermazioni incompatibili): alla
stessa pag. 319 dove si dice:”…l’imprenditore Berlusconi, disposto a pagare
pur di stare tranquillo..”.
Come
può l’imputato avere indotto la vittima, quando questa era già disposta
a pagare ?
b)
travisamento del fatto. Qui non siamo nel travisamento della prova (una prova
c’è e la interpreto male).
Qui
siamo proprio nel travisamento del fatto (asserisco l’esistenza di un fatto che
dagli atti non risulta). Di induzione nessun pentito ha mai parlato.
La
sentenza fa un’affermazione ma non motiva. Non esiste né prova logica, né prova
storica.
Inutile
dire che non è questione di merito.
Una
questione di merito (per chi ancora crede alla distinzione legittimità-merito)
si potrebbe porre rispetto al vizio di motivazione.
Ma
non rispetto alla mancanza di motivazione.
Ecco
qui un esempio clamoroso di come un’imputazione indefinita danneggi la difesa.
Mettiamo
che l’accusa fosse stata consolidata in un’espressione del l tipo “condotta
di concorso esterno consistita nell’avere indotto la vittima a cedere alle
richieste estorsive..”.
La
difesa poteva limitarsi a dire: “questa è l’accusa ? Bene, dammi le prove”.
E il
processo era finito.
7.3.
La teoria del garante o – meglio - dell’affidamento della mafia sulla
collaborazione dell’imputato?
A
pagina 317 la sentenza palesa una variante linguistica (quando un’imputazione è
vaga, sono le parole che ti condannano).
Si
usa questa espressione a carico dell’imputato ”..adoperandosi affinchè il
gruppo imprenditoriale.. pagasse cospicue somme di denaro alla mafia”.
Adoperandosi ? Cosa significa ? Mancando una descrizione della
condotta, la sentenza avrebbe dovuto dirci in cosa concretamente sarebbe
consistito questo adoperarsi.
Ancora
la Mannino ci dice che il contributo deve essere concreto ed effettivo.
Qualificare
il contributo come concreto ed effettivo è quaestio iuris (è
qualificazione normativa del fatto).
Ma come facciamo a dire che il contributo è stato
concreto ed effettivo se non sappiamo in cosa è consistito l’adoperarsi
?
Avanziamo
un’ipotesi: che senza l’adoperarsi
dell’imputato, la vittima non avrebbe pagato ?
Cioè
l’imputato avrebbe garantito l’esito sicuramente positivo dell’accoglimento
delle richieste estorsive ?
Nessuno
ha mai detto questo. Né la sentenza ci indica qualcuno che l’abbia detto.
E’
ben possibile che la mafia facesse affidamento sulla disponibilità
(chiamiamola collaborazione) dell’imputato.
Siamo
alla teoria dell’affidamento .
Quali
fossero i calcoli della mafia è irrilevante.
Bisogna
stabilire quali garanzie avrebbe dato l’imputato alla mafia.
E’
un salto logico dedurre dal possibile affidamento della mafia
l’esistenza di una garanzia data dall’imputato.
La
motivazione della sentenza è un’asserzione senza argomentazione.
Forse
perché è difficile sfuggire al dubbio che la forza persuasiva dell’estorsione
sia consistita - più che nelle parole dell’imputato - nelle bombe della mafia.
7.4.
La teoria della riduzione del rischio mafioso?
A
pag. 320 troviamo un’altra variante.
L’apporto
dell’imputato alla mafia sarebbe consistito nel fatto che la mafia poteva avere
un canale sicuro di collegamento con la vittima, senza il rischio di possibili
denunce e interventi delle forze dell’ordine.
Affermazione
dal senso logico sfuggente.
Il
collegamento può essere lecito o illecito a seconda della direzione.
Se
io -per conto dei familiari del sequestrato- mi metto in contatto con i
sequestratori per trattare la liberazione dell’ostaggio, sono nel lecito.
Se
io -per conto dei sequestratori- comunico alla famiglia del sequestrato- le
richieste estorsive, sono nell’illecito.
Nel
nostro caso il collegamento sarebbe illecito se le richieste estorsive fossero
state iniziative della mafia che si è servita dell’imputato per inviare messaggi estorsivi alla vittima
ed indurla a pagare senza fare tante storie e denunce.
Ma
dagli atti emerge la prova del contrario.
Fu
la vittima a servirsi dell’imputato per contattare la mafia e trovare un gentlemen’s
agreement.
Quindi
la presenza dell’imputato non ha ridotto il rischio dell’impresa mafiosa.
A
meno che non vogliamo pensare che la mafia abbia scelto come bersaglio quella
vittima confidando proprio sul fatto che braccio destro della vittima fosse
l’imputato.
Ma
Galileo diceva: “ hypothesis non fingo”. Non costruisco ipotesi.
Meno
che mai possiamo farlo noi.
7.5.
La teoria del canale di collegamento o tramite tra mafia e
imprenditore famoso?
La
giurisprudenza della Mannino ha fatto giustizia dei termini vaghi
(disponibilità, frequentazioni e simili).
Canale
di collegamento,tramite sono
metafore.
La
tipicità dell’imputazione richiede condotte concrete (la CEDU parla di accusa
dettagliata)
Cosa
ha fatto in concreto l’imputato, dove quando e come ?
Dimmi
prima cosa ho fatto e poi vediamo se la mia condotta può essere qualificata
come tramite, canale, tunnel e simili.
Le
metafore non possono sostituire la condotta.
Non
si condanna sulle parole, ma sui fatti.
7.6.
La teoria del prestigio interno di Bontate per effetto del canale
Dell’Utri: cioè il rafforzamento interno?
Anche
qui la Mannino ostruisce ogni percorso.
Ma
c’è di più.
Cioè
non c’è nulla.
Manca
la prova che ci fosse questa circolazione interna della notizia dell’esistenza
di un canale di collegamento costituito dall’imputato.
Eppoi,
qualcuno potrebbe ironizzare: si è tanto rafforzato Bontate che dopo qualche
anno è stato ammazzato.
Si è
tanto rafforzato come prestigio interno Riina che il capo dei capi fino all’85
neppure sapeva che l’imprenditore era estorto.
7.7.
La teoria del mediatore?
L’imputato
viene qualificato mediatore dalla sentenza.
Le
metafore sono pericolose, bisogna sceglierle con cura.
Occorrerebbe
prima descrivere cosa ha fatto l’imputato e poi qualificare la sua condotta
come mediazione.
Ma
perché mediatore e non -per rimanere nella metafora civilistica- mandatario
con procura per conto della vittima ?
Questa
idea della mediazione è paradossale.
Si è
mai visto che in un’ estorsione (per di più mafiosa) c’è una mediazione tra
autore e vittima ?
Che
estorsione è ?
La
mediazione implica parti contrapposte in posizione di autonomia negoziale che
contrattano. Sarebbe una singolarità strepitosa che la mafia abbia bisogno di
un mediatore.
Un
mediatore che strappi un pizzo maggiore ?
Se
un mediatore c’è, è per conto della vittima.
Criminologicamente
è la vittima di un’estorsione o di un sequestro di persona che cerca una
mediazione per spuntare un prezzo migliore e condizioni di pagamento -rateali-
migliori.
Anche
qui c’è travisamento del fatto e mancanza di motivazione.
L’imputato
non fu scelto dalla mafia, ma dalla vittima come mediatore.
Dunque,
la sentenza ha affermato un fatto che non esiste.
Ma
c’è anche mancanza di motivazione: perché mediatore e non nuncius della
vittima ?
La
sentenza avrebbe dovuto rispondere a questo interrogativo: pacificamente il mero nuncius della vittima non è
concorrente esterno.
Ora
che c'è nella condotta dell'imputato di più rispetto a quella del nuncius
?
Che
conosceva due mafiosi ? Ma questo la vittima lo sapeva e anzi ha scelto
l’imputato proprio per questo.
In
altri termini cosa avrebbe dovuto fare l'imputato per aiutare la vittima senza
diventare concorrente esterno?
Per
usare un paradosso: essendo un mediatore in-civile, doveva essere
ricusato dalla vittima. O doveva astenersi.
Addebitiamo
all’imputato l’omessa astensione ?
Dunque,
il quid pluris è dato dal fatto che l'imputato conosceva , era amico ed
è rimasto amico di due mafiosi.
Si
badi: di due mafiosi che non hanno fruito dei profitti dell'estorsione (che
andavano a Riina) e che sono stati solo tramiti tra l'imputato e la mafia
ricattante.
Il quid
pluris è dunque l'amicizia mafiosa.
8.
Un esperimento mentale.
La
giurisprudenza (dalla Franzese alla Mannino) ci ha abituati ormai a ragionare
in termini controfattuali.
Ora
applichiamo il controfattuale e facciamo il caso che l’imputato non fosse amico
dei mafiosi.
Nessuno
lo condannerebbe.
La
sua condotta sarebbe lecita, perché a favore della vittima.
Ma
allora quale è questo misterioso sortilegio per cui la medesima condotta passa
subitaneamente dal lecito all’illecito ?
L’amicizia
mafiosa.
Ma
la storica Mannino (e in quel caso le amicizie mafiose dell’imputato erano
molto più intense e vaste) ha con parole aspre confinato nell’irrilevante
giuridico le frequentazioni mafiose.
Al
massimo, possono costituire uno spunto investigativo.
9.
Il dolo. Ovvero il paradosso del dolo diviso.
Monotonamente,
va citata ancora la Mannino.
La
Mannino ci dice: il concorrente esterno sa e vuole il
rafforzamento dell’associazione criminosa.
Occorre
il dolo diretto, non basta il dolo eventuale.
Dunque,
occorre dimostrare che non solo l’imputato sapeva che la sua condotta (quale
condotta ?) avrebbe potuto rafforzare la mafia, ma ha agito volendo
rafforzare la mafia.
(Anzi,
ad intendere bene la Mannino il concorrente esterno agirebbe con un doppio
dolo: dolo diretto rispetto all’evento-rafforzamento dell’associazione
mafiosa, dolo specifico rispetto all’evento ulteriore dato dalla
realizzazione almeno in parte del programma criminoso).
Quindi,
non basta dire: “l’imputato sapeva che così facendo rafforzava la mafia”.
Occorre
dire: “l’imputato ha agito sapendo e volendo rafforzare la mafia”.
Qui
non si tratta semplicemente di prevedere ed accettare il rafforzamento della
mafia: questo è automatico in ogni fattispecie estorsiva.
Qui
si tratta di volere il rafforzamento della mafia e di agire a tal fine (siamo
nel dolo intenzionale del rafforzamento)
Nel
caso dell’imputato dove è la prova del
dolo ?
Mi
correggo: dove è la motivazione relativa all’esistenza del dolo.
Se
l’imputato ha agito con l’intenzione di aiutare la vittima, sapendo così
di aiutare la mafia: siamo fuori del dolo[3].
Occorre
dimostrare che l’imputato ha agito volendo aiutare la mafia.
Ma
qui abbiamo un altro paradosso.
L’imputato
agisce con un dolo diviso a metà. Vuole aiutare al tempo stesso la vittima e
gli estorsori.
Ma
come è possibile ?
Nel
momento in cui vuoi aiutare la mafia, non vuoi danneggiare la vittima ?
La
sentenza valorizza l’amicizia dell’imputato con i mafiosi (che -oltretutto- non
sono beneficiari dei profitti dell’estorsione).
Qui
c’è un doppio errore.
Il
primo errore: il dolo non è un atteggiamento interiore del tipo desiderio,
speranza e simili.
Il
dolo è conoscenza e volontà che filtra nell’azione e la irrora come un vaso
sanguigno.
In
altri termini, l’azione dolosa è diversa dall’azione senza dolo.
Se
io mi limito a portare i soldi del riscatto ai sequestratori per conto dei
familiari della vittima, posso anche odiare il sequestrato e fare il tifo per i
sequestratori.
Ma
questo non sposta di un millimetro il fatto che non sono un complice.
Il
secondo errore: diamo pure rilevanza all’amicizia.
La
cosa potrebbe pure funzionare: se ci fosse solo quell’amicizia.
Ma
l’imputato -nessuno lo nega- è legato fortemente alla vittima.
Ora
perché privilegiare l’amicizia per i mafiosi non beneficiari e non
l’amicizia per la vittima ?
E’
chiaro che la posizione della vittima e quella della mafia estorcente sono
l'una contro l'altra.
Qui
si tratta di parteggiare per la vittima o per la mafia.
Ma
lasciamo da parte i sentimenti e consideriamo l’homo oeconomicus.
A
lui giovava di più aiutare la vittima o la mafia ?
E’
razionale che l’imputato - amico e collaboratore della vittima da cui veniva
pagato - preferisca favorire la mafia contro B. ?
Voleva
ingraziarsi la mafia ? E allora come mai, quando si è trattato di fondare un
nuovo partito proprio in Sicilia non ha chiesto i servigi della mafia ?
E
prima ancora: come mai l'imputato (questo è un fatto incontroverso) si è più
volte lamentato che la vittima era tartassata, tanto che è dovuto
intervenire Riina ?
E
come mai Riina ha dovuto riprendere a fare minacce e attentati alle aziende
della vittima per indurla a pagare ed anzi ha raddoppiato il prezzo ?
La
sentenza - con la solita metodica delle asserzioni non argomentate - dice (pag.
320): ”..la cordialità di rapporti delineando una vera e propria complicità
assoluta…perché sarebbe altrimenti inspiegabile perché chi è amico della
vittima continui a tenere una tale cordialità di rapporti. . tali da non
disdegnare pranzi e riunioni conviviali con gli estortori..”
Dunque,
le famose frequentazioni nella storia del concorso esterno hanno avuto una
vicenda tormentata.
Prima
erano la condotta del concorrente esterno.
Dopo
sono diventate la prova del contributo causale
(frequentazione=disponibilità).
Ora
sono diventate la prova del dolo…
Ma è
la logicità dell’argomento che traballa, prima ancora che la sua giuridicità.
Innanzitutto,
va ripetuto: Mangano e Cinà non hanno preso un soldo e non sono stati loro a
fare materialmente le estorsioni. Erano il canale (per usare l’abusata
metafora) di cui l’imputato si serviva per trattare con i Capi.
Ma
analizziamo l’argomento logico della sentenza.
Esso
si sostanzia nel seguente criterio di inferenza: “se tu sei amico della
vittima tronchi ogni rapporto con gli estorsori e con i loro emissari,
altrimenti sei complice”.
Basta
mettere in forma linguistica il criterio di inferenza per vedere quanto sia
implausibile.
E perché non dovrebbe essere più razionale il criterio
di inferenza opposto: “la vittima e gli amici della vittima cercano di
conservare buoni rapporti con gli estorsori perché in questo modo sperano di
poter strappare condizioni migliori o comunque di non peggiorare la situazione
?
10.
Un po’ di curiosità per i precedenti giurisprudenziali.
In
effetti, non guasterebbe citare un po’ di giurisprudenza, dal momento che il
concorso esterno è di fatto una creazione giurisprudenziale.
Un
precedente recente potrebbe essere questo:
Sez.
F, Sentenzan.38236del
03/09/2004 Cc. (dep. 28/09/2004 ) Rv. 229649
Ai
fini della configurabilità dei reati di favoreggiamento personale e reale
occorre, sotto il profilo soggettivo, che la condotta favoreggiatrice sia stata
posta in essere ad esclusivo vantaggio del soggetto favorito, per cui i
suddetti reati restano esclusi qualora l'agente abbia avuto di mira il
conseguimento di interessi propri. (Principio affermato, nella specie, con
riguardo alla condotta tenuta da un imprenditore il quale, pur avendo assunto,
secondo l'accusa, un ruolo di cerniera tra la criminalità organizzata locale e
le imprese disposte a venire a patti con la medesima, aveva tuttavia agito
essenzialmente al fine di assicurare la tranquillità delle imprese che a lui
facevano capo).
La
condotta dell’indagato (siamo in fase cautelare: si badi gip e riesame avevano
ritenuto il favoreggiamento personale e non il concorso esterno)) viene così
riassunta:
“la
figura di imprenditore camorrista dello Iovino, che non si sarebbe limitato a
subire la pressione dei clan camorristici della zona (attestata dall'estorsione
subita nel cantiere della ditta da lui gestita) ma avrebbe assunto il ruolo di
cerniera tra la criminalità organizzata locale e le imprese disposte a venire a
patto con la camorra, attivandosi per raccogliere nell'ambito degli
imprenditori che stavano effettuando lavori nella zona di Sarno, a seguito
della nota alluvione del 1998, una maxi tangente collettiva di L. 80.000.000,
così rendendo più difficili le investigazioni sulle associazioni camorristiche,
delle quali avrebbe favorito la mimetizzazione attraverso la sua interposizione
nella riscossione della somma ed aiutando i componenti dei clan mafiosi ad
assicurarsi il profitto del reato di associazione”.
Ora,
anche l’imputato di questo processo è un imprenditore (amministratore delegato
di una fondamentale società del gruppo societario della vittima), che sarebbe
una cerniera tra la vittima (amministratore della holding del gruppo) e la
mafia.
Dove
è l’iniziativa personale, dove è il profitto personale ?
La
sentenza non se lo pone neppure il problema.
Dunque,
mancanza di motivazione su un punto decisivo.
La
sentenza nelle poche pagini cruciali in cui tratta del concorso esterno
dell’imputato non cita neppure una -ripeto una-sentenza.
Eppure
il concorso esterno ha vissuto stagioni climatiche estreme nella
giurisprudenza.
Si
potevano citare almeno le SS.UU. Mannino.
Qui
la sentenza ha fatto un’applicazione rigorosa di uno dei fondamentali criteri
dell’ars disputandi: non fare citazioni imbarazzanti.
11.
Ma in questo processo esiste il ragionevole dubbio?
Abbiamo
un’accusa non descritta.
Un
dolo diviso.
Asserzioni
non argomentate.
Precedenti
che non ci sono.
Sentenza
delle Sezioni Unite che c’è ma viene ignorata.
Ma
soprattutto nelle centinaia di pagine della sentenza c’è un’espressione che non
compare mai.
E
che forse ha una qualche importanza: ragionevole dubbio.
12.
Un problema di diritto: è ammissibile il concorso esterno in associazione
semplice?
La
sentenza tratta la tematica come se si trattasse di una successione di condotte
di partecipazione.
E
cita giurisprudenza pacifica sul punto.
Ma
qui si tratta di successione di condotte di concorso esterno.
A
meno che non si voglia sostenere che l’imputato prima dell’82 era un partecipe
e dopo è diventato concorrente esterno !
Qualcuno
dovrebbe spiegarci come sia avvenuta questa trasfigurazione…
Qui
la legge non si limita ad introdurre reati, cambia pure le condotte storiche.
E
allora si sarebbe dovuto affrontare un tema preliminare e cruciale: il concorso
esterno -per come è stato configurato dalle sentenze delle SS.UU.- è
ammissibile anche per il 416 cp. ?
Gli
effetti sarebbero devastanti.
Il
416 cp è una norma ancora in vigore.
12.1.
Un altro problema di diritto: il concorso esterno è un reato permanente?
La
sentenza parla di concorso esterno
Ma
poi quando va a discutere della permanenza o meno del reato, parla di partecipazione.
E’
l’ennesimo effetto perverso dell’imputazione che non c’è.
Come
si sa, non sono la stessa cosa.
Ritenere
che la condotta del concorrente esterno (quale condotta ?) è permanente perché
permanente è il reato associativo è affermazione che stride con la logica prima
ancora che con il diritto.
Perché
porterebbe all’ennesimo paradosso: il partecipe può mettere fine alla
permanenza recedendo dall’associazione, il concorrente esterno non potrebbe
farlo.
Dunque
la sentenza commette vistosi errori di diritto.
L’accusa
è di concorso esterno. Si chiede quando è cessato il reato.
La
sentenza risponde: la partecipazione è reato permanente.
Che risposta è ?
Un
quesito giuridico rimasto senza risposta.
Essendo
una quaestio iuris, deve farlo questa Suprema Corte.
Dunque,
il quesito è: il concorso esterno è reato permanente ?
La
risposta più ovvia dovrebbe essere questa: dipende dal tipo di contributo (può
essere un contributo permanente, istantaneo, frazionato).
E
questo quesito si intreccia con un altro: se io a distanza di anni do due
contributi rilevanti all’associazione, commetto un unico o più reati di
concorso esterno in associazione mafiosa ?
Come
si vede, il concorso esterno ormai pone problematiche diverse da quelle
dell’associazione mafiosa.
Nato
dall’art. 416 bis cp, ormai è un reato autonomo.
Un
reato autonomo creato dalla giurisprudenza.
Che
prima lo ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente
restringendo fino a casi marginali.
In
cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso esterno.
Dall’entusiasmo
allo scetticismo.
Ormai
non ci si crede più.
Qui
l’imputato partecipa alle trattative di un’estorsione e materialmente consegna
periodicamente i soldi.
E’
reato permanente ?
Non
direi proprio per molteplici ragioni.
E’
reato unico a condotta frazionata ?Quindi è iniziato nel ‘77 e si è concluso
nel ‘92 ?
Sarebbe
davvero singolare: non c’è dubbio che siamo in presenza di un’estorsione
continuata.
Per
il concorrente esterno (che -in qualche modo rimasto indefinito- partecipa a
questa estorsione) avremmo un reato unico ad esecuzione -per così dire-
permanente.
Il
che è davvero difficile da costruire.
Nel
campo del lecito esistono contratti di durata. Ma nel campo dell’illecito
no.
Ogni
volta che deve pagare la vittima può decidere di non farlo (ecco perché
l’estorsione è continuata).
Ma
c’è di più: l’imputato per vari anni (dal ‘79 all’82-83) ha smesso di lavorare
per la vittima ed è andato a lavorare altrove.
Dobbiamo
ritenere che anche in quegli anni è continuata la condotta di concorrente
esterno ?
Se è così, allora davvero l’imputato non ha scampo.
Ma
non ha scampo neppure il diritto.
13.
Conclusione: annullamento con rinvio.
Si
sono trattate solo questioni di diritto, cioè di qualificazione normativa del
fatto.
In
questo campo la Suprema Corte se trova che nessuna fattispecie concreta
risponde alla fattispecie incriminatrice, ha una strada obbligata: l’art. 129
cpp.
E
questa sarebbe la soluzione se ci fosse una imputazione definita.
Ma
qui si affastellano una serie di ipotesi provvisorie sulla condotta criminosa.
Si
tratta di questioni miste di fatto e di diritto: la mancata descrizione del
fatto impedisce alla Cassazione la qualificazione normativa del fatto.
Per
dirla con un’espressione elaborata da un secolo e mezzo dalla Cassation
francese, siamo in presenza di un défaut
de base légale.
La
scelta dell’ipotesi criminosa non compete alla Cassazione, ma appartiene alla sovranitè du juge du fond.
Dunque, la soluzione conforme ai poteri
cognitivi e decisori della nostra Cassazione sarebbe quella dell’annullamento
con rinvio.
Il
giudice di rinvio avrebbe il compito di:
a)
parametrare l’imputazione (precisando la condotta, il contributo materiale e il
dolo);
b)
chiarire se la condotta del concorrente esterno debba presentare o meno i
requisiti del concorso in estorsione;
c)
stabilire se si sia in presenza di un reato unico o di un reato continuato
(anche ai fini di una eventuale, parziale prescrizione);
d)
adeguare la motivazione all’imputazione così determinata, seguendo un ordine
logico, senza sovrapposizione di piani tra condotta, effetto causale e dolo e
–soprattutto - senza slittamenti semantici, espressioni vaghe volte a coprire
un vuoto argomentativo.
L’annullamento
con rinvio per vizio di motivazione non vuol dire che l’imputato è innocente.
Vuol
dire che la motivazione è viziata, non che la decisione sia sbagliata.
E’
un annullamento fatto non a favore dell’imputato.
Ma a
favore del diritto.
Roma,
9.3.2012
Il
Sostituto Procuratore Generale
Francesco
Mauro Iacoviello
[1]
Sez. 4, Sentenzan.16900del
04/02/2004 Ud. (dep. 09/04/2004 ) Rv. 228042 In tema di correlazione tra
l'imputazione contestata e la sentenza deve affermarsi che, per aversi mutamento
del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali,
della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista
dalla legge, così da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto della imputazione
da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue
che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non si
esaurisce nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza perché,
vertendosi in materia di garanzie difensive, la violazione non sussiste se
l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia comunque venuto a trovarsi
nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all'oggetto della
imputazione (Nella fattispecie la Corte ha rigettato il ricorso, teso al
riconoscimento della violazione della disposizione di cui all'art. 521 cod.
proc. pen., sul presupposto dell'erronea indicazione, nel capo di imputazione
dell'ipotesi di cui all'art.113 cod. pen.: la Corte, pur rilevando tale
erroneità, ha tuttavia affermato il principio con riferimento alla evidente
chiarezza di tutti gli elementi della contestazione circa i profili di
colpa addebitati all'imputato).
[2]
Eclatante la differenza in questa sentenza: Sez.
6, Sentenzan.10457del
11/07/2000 Ud. (dep. 04/10/2000 ) Rv. 220534
Non
integra violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza di
cui all'art. 521 cod. proc. pen., atteso che la partecipazione ad associazione
mafiosa e concorso esterno non rappresentano due diverse ipotesi criminose ma
distinte modalità di partecipazione criminosa, la decisione con la quale
l'imputato, rinviato a giudizio per concorso esterno a una associazione
mafiosa, sia stato condannato per partecipazione alla medesima associazione, una
volta che il fatto materiale sia stato sufficientemente enunciato nell'atto di
imputazione e con la sentenza l'imputato sia stato ritenuto responsabile
proprio di quel "fatto".
Aggiunge:
Sicché,
una volta che il fatto materiale sia stato sufficientemente enunciato nell'atto
di imputazione ex art. 429 comma 1 lett. c) c.p.p., e quindi non vi sia
incertezza sulla contestazione, e l'imputato sia stato ritenuto responsabile
proprio di quel "fatto", l'aspetto qualificatorio della condotta non
incide nè sul diritto di difesa ne' implica una immutazione della imputazione”.
[3]
A pag. 321 la sentenza prospetta proprio il dolo
eventuale: .”ha contribuito al consolidamento e rafforzamento
dell’associazione mafiosa che l’imputato Dell’Utri si è certamente
rappresentato, accettando consapevolmente che proprio dalla sua costante
azione di mediazione derivasse tale rilevante profitto conseguito proprio da
cosa nostra..”. Se a qualcuno rimanesse ancora il dubbio che la sentenza
pensa proprio al dolo eventuale, ecco un altro passaggio sempre a pag. 321: “dovendo
ritenersi che abbia invece operato nella sicura consapevolezza che la
sua azione avrebbe procurato il risultato, coscientemente accettato
dall’imputato, di favore la mafia..”
Lo
scontro con la Mannino è frontale. E letale. Per la sentenza.
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